In occasione della festa della donna ricordiamo una figura che tutti gli alunne e le alunne della scuola Patrizi hanno avuto modo di conoscere per la sua testimonianza di vittima e sopravvissuta della Shoah. Proprio dal suo tragico passato nascono la volontà di impegnarsi in politica e la convinzione che gli Stati europei debbano collaborare nella costruzione di un’ Europa unita e solidale assicurando alle giovani generazioni ciò che a lei è stato sottratto e per mettere i giovani al riparo dai crimini che lei ha subito.
La vita di Simone
Sembrava dovesse essere tutta in discesa, la vita di Simone, la piccola di casa coccolata e un po’ capricciosa. Quando nasce a Nizza nel 1927, i suoi genitori, André e Yvonne Jacob, ebrei parigini, hanno già tre figli: Madeleine detta Milou, Denise e Jean. Il padre, architetto, progetta ville in Costa Azzurra e la madre ha lasciato gli studi per occuparsi della famiglia. Essere ebrei, per i Jacob, non ha nulla a che vedere con rabbini e sinagoghe. «L’appartenenza alla comunità ebraica era apertamente rivendicata da mio padre, non per motivi religiosi, ma culturali», dice Simone in Una vita, la sua autobiografia scritta nel 2007 (pubblicata da Fazi Editore nel 2010). «Ai suoi occhi, se il popolo ebreo restava il popolo eletto, era perché era il popolo del Libro, del pensiero e della scrittura».
Alla fine dell’anno scolastico, le ragazze Jacob trascorrono una gioventù spensierata, in spiaggia, in gita con le Giovani Esploratrici o in compagnia dei cugini. Ma all’orizzonte si profila la tempesta: l’ascesa di Hitler porta la guerra. Nizza, occupata dagli italiani, resta un’isola felice, almeno fino al settembre 1943, quando subentrano i tedeschi e la Gestapo stabilisce il suo quartier generale all’Hotel Excelsior. Fresca di esame di maturità, Simone viene fermata dai nazisti per un controllo, mentre va a una festa. A nulla serve il suo documento falso, che la identifica come Simone Jacquier. Con la madre, Milou e Jean, il 7 aprile 1944 viene deportata al campo di Drancy. Dopo pochi giorni, sono sul treno per Auschwitz-Birkenau. Il primo colpo di fortuna per Simone è la voce di uno sconosciuto che le sussurra: «Devi dire che hai 18 anni». Lei ne ha 16 e mezzo, e grazie a quel consiglio evita la camera a gas, insieme alla madre e alla sorella. «Eravamo nello stesso gruppo, il 108, che doveva costruire una piattaforma verso un forno crematorio», racconta Marceline Loridan-Ivens, regista e amica inseparabile di Simone. «Lavoravamo 12 ore al giorno. Ci chiedevamo se saremmo uscite da lì dalla porta o dal camino». Malgrado l’abbrutimento e la fame, la bellezza della sedicenne brilla anche in quell’inferno. Viene notata dalla direttrice del campo: «Tu sei davvero troppo carina per morire qui». Le tre donne vengono spostate in un altro campo, meno duro. E da lì a Bergen-Belsen, dove Yvonne, debilitata, muore di tifo. «Ancora oggi, più di 60 anni dopo, non sono mai riuscita a rassegnarmi alla sua scomparsa», scrive Simone. «So che tutto ciò che sono riuscita a realizzare nella vita lo devo a lei».
Il ritorno in Francia
La fine della guerra e il ritorno in Francia sono il momento della resa dei conti. Jean e il padre sono morti in Lituania, Simone e Madeleine sono ancora vive, e anche Denise, prigioniera a Ravensbrück, se l’è cavata. «Per molto tempo i deportati hanno dato fastidio», scrive nelle sue memorie. «Molti dei nostri compatrioti volevano a ogni costo dimenticare (…). Noi volevamo parlare e loro non volevano ascoltarci». In questo clima difficile, Simone cerca di voltare pagina, iscrivendosi a legge, con l’obiettivo di diventare avvocato. Durante una vacanza in montagna incontra Antoine Veil, studente di scienze politiche. Lui ha 20 anni, lei 19. È il ’46, e i giovani hanno voglia di ricominciare a vivere e divertirsi. Veil è ebreo come lei. È colto, spiritoso, brillante. La sua famiglia non è osservante, come la sua. Un’unica differenza: lui non ha vissuto la deportazione. La scintilla scatta subito. Si sposano nel giro di poche settimane e la loro unione sarà inossidabile: 67 anni insieme, fino alla scomparsa di lui. Nel ’47 nasce Jean. Tredici mesi dopo, Nicolas. Simone segue il marito, che ottiene un incarico di lavoro in Germania, e al rientro in Francia nel ’54 vede la luce il loro terzogenito Pierre-François. «Non frequentiamo nessun avvocato. Non è un mestiere per donne».
Una carriera da magistrata
Dal 1957 al 1964 Simone è assegnata all’amministrazione penitenziaria. «Visitando le prigioni, mi sembrava di fare un tuffo nel Medioevo», scrive. La sua esperienza da deportata la rende ipersensibile verso la sofferenza dei detenuti. Si preoccupa della loro salute, delle condizioni di reclusione delle donne. In Algeria si impegna per la sorte dei ribelli indipendentisti. Era un’ebrea francese, con il numero 78651 tatuato sul braccio, che più di chiunque credeva alle idee di “libertà, fraternità e uguaglianza”. Non era una rivoluzionaria: il comunismo era quanto di più lontano ci fosse da lei, ma nella sua visione liberale e conservatrice è sempre stata presente un’idea di giustizia. Nel ’70 diventa la prima donna segretario generale del Consiglio Superiore della Magistratura. Intanto, anche Antoine prosegue una carriera nella pubblica amministrazione e poi nel settore privato.
Presidentessa a Strasburgo
Il successo ottenuto la proietta verso un’altra sfida. Nel giugno ’79 si presenta alle prime elezioni europee a suffragio universale ed è eletta presidentessa del Parlamento europeo. Resta in carica fino a gennaio 1982: in quegli anni il conflitto nella ex Jugoslavia la induce alla riflessione. «Questi diritti dell’uomo teoricamente universali in realtà non lo sono affatto. (…) La morale si fa sempre ai deboli e si discolpano i potenti».Seguono anni ricchi di soddisfazioni – una nuova nomina a ministra nel ’93, la presidenza della Fondazione per la memoria della Shoah dal 2001 al 2007, il riconoscimento ad Accademica di Francia nel 2008 – ma anche di difficoltà.
L’evento scolastico del 27 gennaio
Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, nella scuola Patrizi per tutta la mattinata gli studenti hanno letto pagine dell’autobiografia Simone Veil “Alba a Birkenau”, soffermandosi sull’esperienza dell’internamento nel lager.
Al termine della lettura nell’atrio della scuola sono state lasciate ben visibili alcune parole di Simone, che sostiene che il suo sogno di un’Europa unita e il suo sforzo di riconciliarsi con i tedeschi nascono dall’aver scelto di continuare a vivere anziché non uscire più dal suo dolore: “quando si sono vissute simili tragedie non restano che due possibilità: non uscirne mai più o ritrovare la voglia di vivere. Dopo la guerra, io mi sono schierata con quel desiderio di vivere. I miei sentimenti filoeuropei, lo sforzo di riconciliazione -perché di un vero sforzo di tratta- sono nati da quel desiderio. Faccio parte della schiera di coloro che dicono «se non facciamo così, i nostri figli vivranno qualcosa di ancora peggiore».
Carolina M., Natasha M., cl. 2C