Da diversi decenni si vedono arrivare nelle nostre città donne alla ricerca di una vita migliore, che svolgono spesso lavori come colf, badanti, braccianti.
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Molte di esse provengono dalla Romania, Bulgaria, Moldavia, Ucraina.
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Le vediamo sole o con amiche pure loro straniere.
Ma dove sono le loro famiglie?
Gran parte di loro per venire a lavorare è costretta a lasciare i propri figli nel Paese d’origine ed è così che essi diventano orfani bianchi, cioè bambini che hanno i genitori ma a distanza. Infatti molti bambini e bambine delle mamme emigrate vengono affidati a parenti, a convitti sociali o, nel peggiore dei casi, a orfanotrofi.
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Le mamme, seppure a distanza, cercano di avere comunque contatti con loro, ma il distacco non è semplice soprattutto per i più piccoli.
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Attualmente, secondo l’UNICEF, sono almeno 359 mila in Romania, 100 mila in Moldavia i figli delle donne emigrate.
Molti di questi giovani e giovanissimi, seppure le loro madri cerchino in tutti i modi di mantenere vivo il rapporto con loro, portano con sé cicatrici emotive e il più delle volte cadono in depressione, fino, in alcuni casi, a cercare il suicidio.
Vediamo queste donne lavorare, ma non conosciamo le loro storie e le sofferenze causate dalla loro migrazione.
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L’espressione orfani bianchi deriva dal fenomeno delle “vedove bianche” ovvero le mogli degli emigrati europei, tra cui molti italiani, che andarono in America tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, lasciando in patria le proprie spose, spesso senza più tornare.
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Storie di migrazioni di ieri e di oggi, storie di distacchi dolorosi, che sfuggono ai nostri occhi distratti.
Per maggiori approfondimenti:
Camila P., Andrea R., Ilaria B., Ayaz H., Edoardo A., Arianna C.